La mente di un giovane uomo secondo Carlo Carabba
La
neve. Questo a prima vista, pardon lettura, può sembrare il
protagonista del primo romanzo di Carlo Carabba Come
un giovane uomo (edito
da Marsilio). La neve dei primi ricordi dell’io narrante, legata a
una storica imbiancata dei sette colli negli anni ’80 e quella che
si ripete venti anni dopo, quando il protagonista di questo romanzo
(a metà fra il mémoire autobiografico e il flusso di coscienza) si
deve confrontare con la morte improvvisa di un’amica. Ma la neve è
solo uno specchio che riflette il mondo, è la finestra da cui si
affaccia Mrs. Dalloway per cercare se stessa, la nebbia attraverso
cui deve farsi strada Ulisse per ritrovare la sua idea di Itaca. È
il secondino che con il suo manto spesso e ovattato ostenta silenzio
dove si cela ribollir di emozioni, costringendo l’io narrante (e
con esso il lettore) a scavare nella propria mente alla ricerca di un
senso al proprio viaggio. Ed è a poche badilate dall’inizio degli
scavi, che scopriamo che la neve ha, fin dalle prime pagine, ceduto
il passo e il timone della storia ai flussi di coscienza del
protagonista che si trovano così nel triplo ruolo di autori,
narratori e personaggi di questa storia, che azzera trama e ritmo in
favore di geyser linguistici in continua lotta fra di loro.
Il
lettore, scopertosi su un’arca senza timone o forse con troppi
timoni (il risultato è il medesimo), è preda dell’inciso
ossessivo e del periodare costruito su infiniti anelli di subordinate
(quello che si potrebbe definire uno tsunami
ipotattico
per gli amanti dei rapporti sintattici). E se da un lato questo
flusso nasce dalla volontà apprezzabile di proporre un modus
scrivendi che
si distacchi dalla tradizione narrativa anglosassone a cui la gran
parte degli autori contemporanei italiani fa riferimento, dall’altro
converge su una versione proustiana del linguaggio che potrebbe
rendere arduo il compito del lettore, a meno di dimostrasi un amante
devoto del flusso di coscienza usato come strumento di ricerca
nell’io (e in questo caso infatuarsene).
La
scelta di costruire questo complesso castello di trame e snodi
temporali paralleli, che richiama alla mente anche un recente filone
cinematografico (un esempio per tutti il film Inception
di
Christopher Edward Nolan del 2010, in cui il protagonista Dominic
Cobb estrae segreti dalle menti delle persone mentre queste dormono,
infiltrandosi nei loro sogni. Film cui c’è
nel romanzo un riferimento diretto)
potrebbe
mettere in difficoltà anche il lettore più smaliziato, soprattutto
nella parte centrale del romanzo, dove la discontinuità dei flussi
narrativi sembra dominare la scena. Sarebbe un peccato, perché
alcune idee ed intuizioni sono sicuramente interessanti e possono
attivare un percorso di riflessione del lettore condiviso con il
protagonista/narratore. Penso, ad esempio, alla sensazione di
scoramento che prende ogni essere umano quando raggiunge, dopo anni
di soprusi e duro lavoro, ciò che ha sempre agognato e si rende
conto che, da quel momento, la sua vita è priva di senso. Carabba
riesce a descrive in poco più di una pagina e in maniera assai
efficace questo salto nel vuoto servendosi di Wile E. Coyote, il
personaggio della Warner Bros che insegue per anni il suo road runner
(per gli italiani beep-beep). Allo stesso modo sono efficaci alcuni
incisi di mondo esterno che l’autore usa come gancio per preservare
l’io narrante e il lettore dalla furia di subordinate che dominano
la scena: «L’arrivo dell’auto di Davide, che comparve all’altro
lato dell’incrocio dove lo stavo aspettando, fu la fune che seppe
trarre i miei pensieri fuori dalle sabbie mobili in cui lentamente
affondavo».
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