Sindrome da Tempo di Libri

Osservare sempre. Oh, sì, è la prima regola di un narratore e mai quello che ci vene proposto di guardare, perché è ai bordi della nostra vita che si annidano le storie più interessanti. 


Così, mentre il fiume di persone che era appena riemerso con me ieri dall’uscita della metro Lotto si dirigeva a uno degli ingressi di firemilanocity, dove si stava svolgendo la seconda edizione della fiera internazionale dell’editoria Tempo di libri, io mi fermavo sotto la pioggia. Siamo in quel pezzo di Milano che racchiude la torre Unicredit di piazza Gae Aulenti, il Bosco Verticale di Boeri, le torri Isozaki e Hadid del Citylife, e la nuova sede della Fondazione Feltrinelli progettata Herzog & de Meuron a Porta Volta. Grattacieli e palazzi di cristallo che hanno trasformato (e in parte creato) lo skyline della città, donandole un aspetto di un bozzetto di Miyazaki, soprattutto quando una mistura di nebbia, pioggia e smog li avvolge alla base, sospendendoli a metà strada tra cielo e terra, rivelando così a chi li osserva il loro potere attrattivo. Sono rimasto qualche minuto a osservare la torre Hadid decomporsi dalla base, inibendo l’automatismo che mi avrebbe portato di lì a un secondo a estrarre il mio iPhone dalla tasca per trasformare l’emozione in condivisione compulsiva, come se solo nel rendere pubblica una nostra emozione essa prendesse vita. 


Mi è tornata alla mente un’intervista di almeno dieci anni fa a Nadine Gordimer, in cui l’autrice de Il conservatore e de La figlia di Burger raccontava della sua infanzia in Sud Africa. Da piccola per lei tutto era fonte di meraviglia, ogni scoperta si trasformava in emozione e l’emozione in racconto. La luce assoluta e onnipresente che aveva intorno le dettava una storia e stava a lei metterla su carta per non perderla. Per farlo al meglio aveva imparato a osservare tutti i particolare di una scena in silenzio, salvandola nella sua memoria per attingervi quando era necessario. Ho pensato che potevo fare a meno di una foto digitale, affidando quel ricordo alle mie scassatissime retine da miope. Beh, Nadine Gordimer aveva ragione: mi basta chiudere gli occhi e l’immagine è lì. La luce è lì, meno spavalda di quella sudafricana certo, ma capace di attivare (forse perché mediata dalla  nebbia) una sospensione di sensi e di giudizio che nessuna immagine digitale potrà regalarmi. La mia pelle, i miei muscoli, le mie ossa, le sento anche adesso muoversi in quella luce, abbandonarsi a lei e ai suoi racconti. Centinaia di storie, sospese in quella nebbia, in attesa che io ne accolga almeno una. 



In uno degli incontri del fittissimo calendario di Tempo di libri, perché non sono rimasto in stato di trance tutto il giorno a un incrocio a impregnarmi di pioggia, Marco Missiroli, raccontando della sua scoperta di Dino Buzzati, racconta della sua adolescenza, quando, timidissimo guardava gli altri ballare alle feste, senza mai riuscire a imitarli. Fu allora che capì che sbagliava. Non doveva guardare la pista, ma quello che le stava intorno: nella diversità di punto di vista avrebbe trovato i suoi simili e le storie che sarebbe toccato a lui raccontare. Un puro caso mi direte. Gli scrittori sono un gruppetto di ossessivi compulsivi che trovano in rituali morbosi e in epifanie improvvisate il senso della loro diversità e cercano di farlo passare per arte. Forse mi sono solo imbattuto in una rara variante di sindrome di Stendhal che, non a caso, era uno scrittore.  




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