Il succo della storia secondo Tom Stoppard


Quando penso a Tom Stoppard e alla sua sconfinata produzione drammaturgica, la prima immagine che si consolida nella mia mente è la partita a badminton (in cui si usano domande al posto del volano), che Rosencrantz e Guildestern disputano nel testo che prende il nome dalla scelta di William Shakespeare di liquidare in una battuta i due amici-nemici di Amleto: «Rosencrantz e Guildenstern sono morti». Se il bardo ne decreta la prematura, benché meritata fine, nell’atto V scena II dell’Amleto, Stoppard dedica loro un’intera, travagliata, immaginifica e spudorata pièce che, a distanza da cinquant’anni dal suo debutto in Scozia, conserva tutta la sua energia e attualità. 


Ricordo che avevo la stessa età di Tom Stoppard quando debuttò con questo testo al National Theatre di Londra (29 anni), quando andai a spiare per la prima volta all’Haymarket Theatre Ros e Guil (così Stoppard ne addolcisce nomi e desideri) alle prese con il limbo temporale in cui il loro secondo creatore li intrappola, costringendoli a vedere la loro storia che si ripete. Ma l’idea di Stoppard non si ferma a questo primo livello di teatro nel teatro, osando creare un’ulteriore vista per noi, che guardiamo Ros e Guil ingabbiati in uno dei loro battibecchi semantici, mentre intorno a loro si dipana la storia di Amleto cui attendono di prendere parte, infastiditi da una strana compagnia di attori. Gioia pura. Ricordo le risate, la sfida raccolta per chi tenta di tenere il passo con le giravolte dialettiche in lingua inglese, l’energia che mi portai a casa mentre uscivo malvolentieri dal teatro e mi soffermavo a fissare le foto dei due protagonisti, infilati in un paio di botti da birra, ad aspettare il loro prossimo pubblico. 

Di qualche giorno fa la notizia dell’assegnazione del David Cohen prize alla carriera (uno dei più prestigiosi premi letterari per autori viventi di nazionalità inglese o irlandese) a Tom Stoppard che, all’età di 80 anni, ha dichiarato al giornalista del Guardian che era andato a intervistarlo: «Surely not yet», sostenendo di non essere ancora pronto a diventare un santino drammaturgico da tirare fuori a inaugurazioni e anniversari. Lui scrive ancora, sta lavorando a un nuovo testo ispiratogli, come sempre, dal suo presente, anche se non dai temi che sentirebbe più vicini alla propria sensibilità: «Io scrivo per i miei contemporanei e per i posteri, benché come diceva Lytton Strachey: ‘Cosa hanno fatto mai i posteri per me?’ […] eppure non mi sento ispirato dagli eventi che mi circondano come vorrei. La creatività non funziona così. La scintilla che ti ispira, che ti dà l’elettricità e il succo di cui hai bisogno per scrivere, non proviene necessariamente dai temi da cui vorresti che provenisse. È questa la parte difficile». 


Così, mentre aspettiamo che l’ispirazione faccia pace con Stoppard o lui con lei (su chi sia il più difficile ho dei seri dubbi), ci possiamo godere uno dei suoi spettacoli in giro per la Gran Bretagna e il mondo o magari leggerli, scoprendo così una delle peculiarità di Stoppard e di pochi altri autori teatrali del Novecento (Pirandello, Pinter, Hare): la capacità di nascondere nelle loro pagine piccoli gioielli narrativi altrettanto preziosi di quelli scoperti mentre si è seduti nell’oscurità protettiva di un teatro. 



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