La più amata? Pareri discordi anche in casa Ciabatti
(Intervista a Teresa Ciabatti pubblicata su Sul Romanzo il giorno prima dell'assegnazione del Premio Strega)
La più amata (Mondadori) di Teresa Ciabatti, finalista nell’edizione2017 del Premio Strega, è forse il libro più discusso dell’anno per la capacità
della narratrice di mettere a nudo quella che i più hanno interpretato come la
sua vita (di ragazzina prima e giovane donna poi) alle prese con un padre
ingombrante.
Ma è davvero così? Oppure il romanzo si fonda sulla decisione dell’autrice di farsi sostanza da cui partire per costruire ogni personaggio?
Da qui abbiamo iniziato il nostro scambio con
Teresa Ciabatti.
Mi piacerebbe iniziare dalla frase che lei ha inserito in apertura del suo
romanzo. È una citazione da Pastorale americana di Philip Roth: «Rimane il fatto che, in ogni
modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male e poi male e,
dopo un attendo esame, ancora male». Ne La più amata, mi è sembrato di
scorgere lo stesso approccio nel disegnare i personaggi, a partire da se
stessa. Capirli male e poi perseverare, enfatizzando tutti i comportamenti che
confermano questa visione. È così?
Ammesso che ci sia
corrispondenza fra voce narrante e autrice – quanta? Ha importanza? – le due,
una dentro, l'altra fuori dal romanzo, compiono lo stesso movimento che
ripetono con ostinazione. Tentativi per scoprire il vero, anni e anni di
tentativi, fino alla resa, ovvero l'ammissione che la verità è impossibile, e La più amata ne è la prova: alterazione
della verità, manipolazione forse psicotica, di sicuro parziale, spesso
fasulla. Sulla quarta di copertina c'è scritto «un'autofiction sincera», non lo
è.
La figura di suo padre, Lorenzo Ciabatti, domina questo
romanzo, come se il narratore avesse deciso di farne il suo Everest, agognato e
irraggiungibile. Lo stuolo di assistenti, pazienti e concittadini che lo
onorano si unisce ai suoi familiari, che fanno di tutto per essere amati da
Lorenzo, senza mai avere il coraggio di avvicinarsi a lui veramente. Lo
osservano, lo giudicano, lo temono, ma non riescono mai a rompere la barriera
invisibile e spessa che li separa. Ci provano davvero e lui glielo avrebbe mai
permesso?
La vicinanza è una
questione di istanti. Per quanti istanti siamo realmente vicini a qualcuno? Che
sia nostro padre, nostra madre, nostro figlio. Con questo romanzo ho provato a
sperimentare le variazioni continue di distanza, cercando di cogliere l'attimo
di massima vicinanza, quasi di sovrapposizione. In prossimità, al quasi vicino,
il romanzo rallenta. Rallenta sui gesti di tenerezza, sul resto procede veloce,
quasi per accumulo. Accumulo di situazioni, giorni, anni, persone, oggetti. In
questo libro conta molto la proprietà, è tutto appropriazione indebita. Lo è il
libro in sé: io che mi appropprio della vita dei miei genitori e la racconto a
mio piacimento.
Nelle descrizioni di Lorenzo, il lettore percepisce un
occhio giudicante che non perdona, come se un fiume di risentimento scorresse
sotto la struttura narrativa del romanzo decidendone il percorso. Andando
avanti nella lettura però ci si rende conto che questo astio si irradia a
chiunque venga a contatto con Lorenzo, diventando un virus cui nessuno sa
opporsi. Questa debolezza congenita viene giudicata dall’io narrante con
maggiore durezza?
Non c'è risentimento.
O meglio c'è quanto ci sono amore e gratitudine. È lo sguardo mutevole, la
perenne oscillazione del'io narrante tra dubbio e illusione a dare forse l'idea
di giudizio. L'io narrante giudica, e un attimo dopo assolve. Attribuisce
colpe, poi se le prende. Tutto dura pochissimo, le posizioni conquistate
vengono subito ribaltate. Il presupposto dunque è una voce inquieta, non
credibile, che rende ogni cosa incerta. Se stessa, il padre. Persino la
testolina di polistirolo: è un giocattolo?
C’è un momento nel romanzo in cui lei ricorda quando
Lorenzo Ciabatti raccontava un aneddoto della sua esperienza in USA,
favoleggiando di incontri con attrici come Marilyn Monroe. La Teresa Ciabatti
personaggio chiedeva a suo padre: «Le somiglio un po’?» Suo padre la scrutava
con molta attenzione, come se non l’avesse mai vista prima, e ogni volta le
rispondeva: no. C’era realmente l’intenzione di ridimensionare le aspettative
di una figlia senza rendersi conto del dolore che poteva generare?
Non può essere dolore
scoprire di non somigliare a Marilyn Monroe. La risposta sincera – tipica di
chi si rapporta ai bambini come se fossero adulti (giusto, sbagliato?) –
diventa addestramento al mondo. Rientra nell'educazione, non quella
intenzionale, ma quella spontanea legata al carattere dei genitori,
l'impronta.
Questo romanzo deriva
dalla domanda «somiglio a Marilyn Monroe?», e dalla risposta «no».
Leggendo il romanzo si ha l’impressione che lei abbia
preso in mano l’album di famiglia e, fermandosi su ogni foto, abbia creato un
frammento della storia. È così che ha ricostruito gli eventi che hanno
preceduto la sua nascita?
Ho pochissime foto
dei miei genitori, e anche di me bambina. Scrivere La più amata è stato ricostruire immagini che non c'erano, riprendersi la memoria.
Arriviamo a Francesca, sua madre. Pura, buona, ottimista.
Lei scrive: «per Francesca Fabiani ogni cosa è bene». All’inizio della narrazione sua madre appare il monolitico antagonista di suo
padre, eppure anche lei ha delle colpe. Prima fra tutte quella di non essersi
opposta a suo padre? Mi viene in mente l’episodio della corsa in auto e del
vestito verde di Pierre Cardin.
Francesca Fabiani non
è il bene, tanto quanto Lorenzo Ciabatti non è il male. Non c'è opposizione
netta, ma continuo scambio di ruoli, andirivieni reciproco fra bene e male.
L'intera famiglia, quasi come un unico corpo, ondeggia tra luce e ombra.
Come si sta preparando per la serata finale del Premio
Strega?
Volevo comprarmi un
vestito verde. Non l'ho fatto.
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