San Siro: Io, Tiziano e alre 49.999 persone



Io non amo il calcio. Sarebbe più corretto dire che non lo conosco. A casa mia il calcio era visto alla stregua dei giochi gladiatori, un intrattenimento che si basava sulla necessità ‘presunta’ di ogni essere umano di scaricare rabbia e gioia come se non vi fosse un domani.

L’idea che ne avevo era stretta in un paio di righe degli Annales di Tacito in cui si descriveva la sanguinosa faida nata fra pompeiani e nocerini nel 59 a.C. durante uno scontro fra gladiatori. Vere e proprie tifoserie avverse, per loro passare dall’orrore verbale a quello fisico era naturale, tanto che lo stesso Tacito descrive le mutilazioni che i tifosi si infliggevano a vicenda come un passaggio necessario per difendere l'onore dei 'loro' campioni. È inutile dirvi che questa convinzione non mi aprì le porte delle relazioni sociali. Essere l’unico che non scambiava le figurine dei calciatori, che non giocava a calcetto e che non aveva alcuna idea di cosa sia un fuori gioco, ha influito sul mio livello di popolarità, privandomi di quel senso di appartenenza su cui si fondano le tifoserie. 


Poi è arrivato San Siro e un concerto, in una sera di giugno milanese in cui ti senti come Wile E. Coyote, il personaggio dei cartoni della Warner Bros, fermo con sguardo rassegnato ad aspettare che l’ennesima incudine di afa di schiacci la testa. In quei momenti qualsiasi miraggio è benvenuto, anche se digitale, così una cascata d’acqua proiettata su un maxi schermo può bastare a risvegliare i sensi. Chitarra, sintetizzatore, basso, batteria. Energia che si diffonde sulle migliaia di persone che sono sedute vicino a te, riaccendendole come se avessero un interruttore sulla pancia che solo la musica può spostare su ‘ON’.


Sul palco Tiziano Ferro, la voce potente, perfetta, ma c’è di più. Testi che si conficcano nella memoria e spingono per uscire dalle labbra dei 49.999 esseri umani che sono intorno a te, tutte assieme, tutti insieme a cantare anticipando le parole che Tiziano lascia al suo pubblico. Così siamo diventati una comunità: tre, forse anche quattro, generazioni a urlare, a urlare, ballare, applaudire, sorprendersi all’unisono. Annientati e potenziati dall’essere collettivo di cui facevamo parte (San Siro), abbiamo capito che stavamo vivendo uno di quei rarissimi frammenti del presente di cui ci saremmo accorti e persino ricordati.


Citando Nick Hornby che citava John Donne: «Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto». Chissà se San Siro e Tiziano riuscirebbero a far cambiare gli inglesi sulla Brexit? 

Commenti

Post popolari in questo blog

Un giorno come questo di Peter Stamm

L’ansia di fare, sì, ma di chi è la colpa?

Nessuno, nemmeno la pioggia, ha così piccole mani