I gauchos insopportabili di Roberto Bolaño
Adelphi ha pubblicato a inizio anno una raccolta di
racconti e riflessioni di Roberto Bolaño che prende il nome da uno degli
scritti che la compongono (Il gaucho
insopportabile). Si tratta di un insieme
di scritti eterogenei, i primi cinque sono racconti, gli ultimi due sono
estratti da conferenze dello scrittore cileno che ha fatto prima del Messico e
poi della Spagna la sua casa. Consegnato in questa forma dallo scrittore al suo
editore spagnolo poche settimane prima di morire, Il gaucho insopportabile ci fa entrare in un territorio dove
immaginazione e scrittura sembrano in continua lotta per sintetizzare schegge
di poesia che Bolaño conficca nei suoi racconti e nelle sue riflessioni,
sfidando il lettore a estrarle per vedere se l’intero castello letterario verrà
giù.
I
n ogni racconto si nasconde l’autore che regala ai
personaggi che crea le sue domande più intime. Lo vediamo fin dal primo
racconto (JIM) in cui al sesto rigo
il lettore affronta la domanda: «Che cos’è la poesia, Jim?» e poi qualche rigo
più in basso tentativi di risposte: «Lessico, eloquenza, ricerca della verità.
Epifania […] cerco lo straordinario per dirlo con parole normalissime». E
inevitabilmente un’altra domanda: «Tu credi che esistano parole normalissime?» Bolaño
avvisa il lettore di ciò che lo aspetta. Non ci saranno trame serrate o
dialoghi rivelatori nei suoi racconti e spesso il flusso di coscienza dei suoi
personaggi (che non fa altro che ricalcare quello del loro creatore)
conquisterà troppo spazio, trasformando la narrazione in puro fondale per le
domande cui l’autore sente di non potersi sottrarre: il significato della vita,
le ragioni per cui valga viverla, se ciò che è giusto per sé debba prevalere su
ciò che è giusto per gli altri.
Domande, certezze abbattute, ricostruite, abbattute
nuovamente. Accade nel racconto Il gaucho
insopportabile, in cui Hector Pereda, avvocato irreprensibile e perfetto
padre di famiglia, rifiuta la vita che ha preservato per anni, rifugiandosi nel
deserto insieme ai gauchos, dove si troverà ad osservare notti buie «come la
bocca di un lupo». Lo stesso tema ritorna ne Il viaggio di Alvaro Rousselot, uno scrittore argentino alla
ricerca di un successo che non arriva mai. Dopo l’ennesima delusione Alvaro
partirà per Parigi alla ricerca di un regista che (Alvaro ne è sicuro) ha
plagiato un suo romanzo per farne un film. Lo fa perché ha paura che la sua
passione per la scrittura si sia atrofizzata, mossa solo dal desiderio di diventare
famoso e non da una reale necessità a scrivere. Necessità che Bolaño mette in
discussione: «Diventiamo tutti vittime dell’oggetto della nostra adorazione,
forse perché ogni passione tende – più velocemente delle altre emozioni umane –
alla sua fine, forse per un’eccessiva frequentazione dell’oggetto del
desiderio». Dubbio che si amplifica quando Alvaro incontrerà il piccolo editore
che ha tradotto un romanzo di Rousselot in francese. «Da Camus in poi l’unica
cosa che interessa qui sono i soldi» gli dirà l’editore, eppure sarà proprio in
quel momento che Rousselot capirà di non essere andato a Parigi alla ricerca della
fama né di un nuovo romanzo, ma solo di qualcuno capace di ascoltarlo.
Stile giornalistico e descrizioni di emozioni smussate
si alternano a periodi in cui le frasi sono tentativi di bloccare il pensiero,
funzionali in alcuni racconti, meno riusciti e baroccheggianti in altri. Questo
può confondere e demoralizzare anche il lettore più scaltro, ma ogni lettura è
un viaggio e (come ci ricorda proprio Bolaño) Baudelaire diceva: «Per il
bambino innamorato delle mappe e delle stampe – e noi diremmo anche per il
lettore - l’universo è pari alla sua
immensa voglia».
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