Bestie di scena e non secondo Emma Dante, in scena al Piccolo di Milano



Immaginate di entrare al Teatro Piccolo di Milano. Mi riferisco alla sede ‘nuova’ di Largo Greppi, quella intitolata a Giorgio Strehler (inaugurata alla fine degli anni ’90 per ampliare l’offerta del primo teatro stabile d’Italia). Ci accoglie con la sua cubica presenza, ricoperto di mattoni pieni, come molte chiese ambrosiane che si nascondono nelle anse modaiole e design-centriche del quartiere Brera. All’interno il sipario è aperto su un palcoscenico senza fondali, solo le quinte nere come la pece e un gruppo di attori in tuta e scarpe da ginnastica che si sta riscaldano con esercizi rubati a una lezione di cross-fit. È questo il primo impatto con il nuovo spettacolo di Emma Dante, che ha debuttato al Piccolo con il titolo Bestie di scena.



Il pubblico, un po’ disorientato, si siede, iniziando a trafficare con programmi, giornali e smartphone, refugium peccatorum dell’ansia da contatto umano del XXI secolo. Anche gli attori ignorano il pubblico, concentrati sui passi sempre più veloci del loro allenamento che li porta ad avvicinarsi l’uno all’altro, fino a diventare un unicum saltellante e ruotante. I cellulari ora vanno spenti, lo spettacolo è già iniziato a dispetto delle luci in sala che stentano ad abbassarsi. Le persone intorno a voi si iniziano a strattonare, hanno letto sui giornali che gli attori compaiono nudi in scena e non tutti sembrano possedere un fisico scultoreo sotto le magliette e i pantaloni che gli attori, ora allineati sul proscenio, stanno iniziando a sfilarsi, lasciando cadere gli indumenti e le scarpe nello spazio che separa il palco dalla prima fila. Notate la tensione aumentare nei colli di chi vi siede accanto, non si vuole perdere nemmeno un particolare dei  corpi altrui. Ma l’esposizione prolungata riduce l’interesse, lo sappiamo bene, capaci di pranzare amabilmente mentre la TV ci mostra gli effetti di bombardamenti, migrazioni e tendopoli, senza che questo faccia ridurre il nostro desiderio di riempirci lo stomaco. Così, dopo aver fatto apprezzamenti e debiti confronti, la mente degli spettatori archivia il nudo e guarda con stupore all’uomo.


Gli attori sono lanciati su un palco, in balia di un signore-coreografo che gli scaglia addosso qualsiasi oggetto gli passa per la mente, suscitando l’emozione che più di tutte temiamo e che sempre ci accompagna: la paura. Della novità, dell’altro, di noi stessi, del destino, della fame, della morte. Emma Dante condensa in 75 minuti di spettacolo, un inferno emotivo ‘dante-sco’, che ha forti richiami pittorici, passando dal terrore risucchiante di Munch alla speranza incerta e puntinata di Seurat.



Questo spettacolo che ha preso una forma e una dimensione molto diversa dall’idea originale che la stessa coreografa aveva, ruota intorno allo sguardo. Del pubblico sugli attori, degli attori sul pubblico, degli attori fra di loro e del coreografo sugli attori. Ognuno guarda lontano da sé alla ricerca di una debolezza altrui di cui gioire e a cui sentirsi accumunato. Mentre guardano, le bestie di scena della Dante ballano, cantano, urlano, litigano, seducono, combattono, senza mai emettere una parola, a dimostrazione che il linguaggio che il nostro cervello assorbe con più facilità è quello del corpo. Ci rivolgiamo a noi stessi e mentre, a fine spettacolo, gli attori tornano allineati al proscenio, rifiutando, per la prima volta, di eseguire il compito che il coreografo gli ha comandato (rivestirsi), ci chiediamo se non dovremmo essere noi a provare imbarazzo per le scelte che a volte indossiamo.



«Ognuno di noi parla, e dopo aver parlato, riconosce quasi sempre che è stato invano. Ci conduciamo disillusi in noi stessi, come un cane di notte alla sua cuccia, dopo aver abbaiato a un’ombra» [1]






[1] dalle note di regia di Emma Dante

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