Luca Mastrantonio: giornalista culturale e cercatore del sorprendente


Prima di incontrare Luca Mastrantonio, giornalista culturale de Il Corriere della Sera, mi è capitato fra le mani un suo artico dello scorso agosto, sull’uso del neologismo «webete», crasi fra ‘web’ ed ‘ebete’, che Enrico Mentana ha contribuito a far diventare virale nel 2016. Quando parliamo di webeti, ci riferiamo a chi ha reagito all’impatto della diffusione di informazioni e delle reti perdendo in intelligenza, consapevolezza e cultura. Creduloni pronti a condividere un’esperienza e una conoscenza di cui non sono mai stati davvero in possesso e che non hanno provato in prima persona. Leggendo l’articolo di Mastrantonio, attento osservatore dei tic linguistici raccolti in Pazzesco! Dizionario ragionato dell’italiano esagerato (Marsilio, 2015), mi sono venuti in mente i subprime, i prodotti finanziari costruiti su altri prodotti finanziari che poggiavano a loro volta su altri prodotti finanziari. Scatole vuote che hanno fatto crollare il sistema economico mondiale. 

Parto proprio da qui per iniziare la nostra intervista con Luca Mastrantonio: stiamo assistendo alla creazione di subprime culturali? E se sì, come possiamo evitare di ‘acquistare’ conoscenza senza contenuti? 
Penso che ancor di più oggi la testata giornalistica e la firma del giornalista possano essere due garanzie importanti, da porre sempre a verifica certo, ma requisito irrinunciabile per dare una maggiore certezza sui contenuti letti.  Per il web vale la capacità di rimandare a link puntuali e sintetici, a documenti che rafforzino quello che viene detto. Ma anche in questo caso mi fido più del fattore umano, delle persone che ci sono dietro le firme e alle testate in cui lavorano, piuttosto che degli algoritmi che in fondo rispondono a criteri quantitativi e relazionali, almeno per ora: Facebook porta su le notizie che piacciono ai tuoi contatti, non quelle verificate. Le rubo l’immagine dei subprime per gli intellettuali italiani, cui ho dedicato un saggio qualche anno fa, Gli intellettuali del piffero, il cui ruolo è mantenere un ruolo, ritagliarsi uno spazio mediatico, per il quale sono disposti a provocazioni e contraddizioni di ogni sorta. L’intellettuale impegnato non impegna più il valore delle sue opere per una battaglia pubblica, ma spesso usa l’impegno per aumentare il suo valore. Si tratta di una speculazione.
Cosa rappresenta per lei l’esperienza de La Lettura, il supplemento domenicale de Il Corriere della Sera?
È stata ed è tuttora un segnale importante. L’esperienza de La Lettura è partita nel 2011 e ha festeggiato i suoi cinque anni proprio in questi giorni. È nata da un’idea del direttore Ferruccio de Bortoli, che l’ha fortemente voluta, ma deve molto anche ai lettori che l’hanno apprezzata, è stata una sfida. Una sfida vinta con i numeri dell’epoca e rilanciata e rivinta dall’attuale direttore Luciano Fontana, quando La Lettura è diventata a pagamento. Io venni assunto dal Corriere nel 2011 proprio per la progettazione e realizzazione de La Lettura e ho avuto il privilegio di lavorare a quel progetto per 4 anni. All’inizio fu una specie di start up di linguaggi nuovi, firme nuove… dentro una struttura istituzionale come il Corriere. Un piccolo miracolo.


Cosa le ha dato umanamente questa esperienza e cosa ha ereditato, se l’ha fatto, dalla storica e omonima rivista mensile pubblicata nella prima metà del XX Secolo?
Come tutte le sfide, mi ha confermato la necessità di dover immaginare sempre qualcosa che non c’è. In questo caso è stato immaginato qualcosa che un secolo prima già esisteva, ovvero la Lettura, calandolo però in una realtà molto diversa, con bisogni diversi. A dimostrazione che fantasia, immaginazione e creatività sono necessarie ma non devono per forza concretizzarsi in qualcosa di lontano dalla tradizione, ma, come in questo caso, possono trovare in essa la fonte per una nuova modalità espressiva. 
Quando è stato contattato per questo progetto cosa ha pensato?
A un piacevole scherzo del destino. Lavoravo a Il Riformista dalla sua fondazione. Nel 2003, quando ho cominciato da stagista. Anno dopo anno, ho iniziato a curare le pagine e gli inserti culturali e di spettacolo del quotidiano arancione diretto da Antonio Polito. Si è trattato di una palestra incredibile di idee, stili e relazioni, per me e tutti i collaboratori che riuscivamo a coinvolgere. Dicevo un piacevole scherzo del destino perché mi stupì che Il Corriere della Sera volesse portare dentro via Solferino quel tipo di esperienza comunque più corsara. Il Riformista era in difficoltà e io mi ero un po’ distratto, cioè ero troppo concentrato sul lavoro, non mi stavo dando molto da fare per cercare lavoro altrove, quindi è stata una bellissima sorpresa quella chiamata. 


Nel suo libro del 2013, Gli intellettuali del piffero, edito da Marsilio, citava una frase di Vittorini “noi siamo contro gli errori, non contro le persone” come premessa a un’analisi dissacrante dell’intellettualismo dominante in Italia in cui fra ‘schizofrenia cognitiva’ e ‘ninfomoralismo’ sembrava che tutto lo spazio per la creatività fosse assorbito dall’ego degli autori, lasciando i lettori orfani di uno stimolo sincero al pensiero. Pensa che gli autori oggi siano più consapevoli dei loro errori e soprattutto abbiano interesse a mettersi in discussione? 
Grazie per aver colto il riferimento a Vittorini. Quando studiavo alla Sapienza ho amato autori come Vittorini, Pasolini, Bianciardi, studiati nei corsi che ho frequentato, per poi laurearmi con Walter Pedullà, correlatrice Mirella Serri, che ha dedicato molto tempo alle avventure intellettuali di Vittorini. Da giovane lettore di libri, saggi e riviste, seguivo con passione un po’ ingenua gli interventi e i dibattiti degli intellettuali italiani nel ventennio della seconda repubblica. Annotavo e seguivo tutto quello che di rilevante veniva detto su vari media, dai giornali ai talk show e quindi la televisione. Mettendo insieme vent’anni di ritagli, testi ed estratti di partecipazioni di questi personaggi a quella che è stata la vita pubblica nell’epoca berlusconiana, mi resi conto che avevo ben più di una raccolta di idee per le mani e così nacque questo libro, che ha provato a raccontare un ventennio di cambiamenti nelle modalità espressive e nelle prese di posizione pubbliche degli intellettuali italiani. Un ventennio che ha visto la trivializzazione delle categorie più alte della cultura italiana. Tra queste, appunto, l’intellettuale. Feticcio sempre più simile alla caricatura di C’eravamo tanto amati.
Qualcosa è cambiato in questi ultimi anni? 
Da quando è uscito quel libro a oggi il processo di ‘ombelicizzazione’ (volendo creare l’ennesimo neologismo) della figura dell’intellettuale, che oggi chiamiamo influencer, è andato avanti. Una trivializzazione anche digitale, pensiamo appunto allo ‘webete’ di cui parlavamo all’inizio. Il problema è che la figura di mediatore culturale sta oggi a metà fra il testimonial pubblicitario e il critico narciso. Questo processo va avanti in maniera euforica e dolorosa. Oggi gli influencer sono persone come Fedez o altri cantanti che sono molto abili a impegnarsi in battaglie e su posizioni che garantiscono un certo ritorno d’immagine. Concludevo il mio libro dicendo che il compito dell’intellettuale era quello di riuscire a ritagliarsi un ruolo attraverso i vari mezzi di comunicazione, oggi che questi mezzi sono a disposizione di tutti, il fine dell’influencer è divenuto la popolarità, il numero di like che ha e quindi il fine coincide spesso con il mezzo.  


Prima definiva ‘doloroso’ il processo di evoluzione della figura dell’intellettuale. Ci può dire perché?
Doloroso perché la digital-mediazione ha fatto sì che chi non è stato al passo con questi cambiamenti ha dolorosamente visto indebolirsi il proprio ruolo. Doloroso perché oggi il ruolo degli intellettuali non è più quello di un tempo e devono giocarsela con tantissime altre persone che per meriti e motivi diversi dai loro possono diventare influencer ben più importanti di scrittori, critici e giornalisti. Abbiamo assistito a un esempio lampante in America con Hillary Clinton che ha segnato l’ennesima sconfitta del ruolo degli intellettuali. La candidatura di Hillary Clinton a Presidente degli USA era appoggiata da Kardashian in su (o in giù a seconda di come si voglia considerare il peso e il ruolo di questa influencer globale), scrittori come Jonathan Safran Foer si sono impegnati in prima persona, eppure c’è stata un débâcle totale. Non è che non era stata prevista la vittoria di Trump, ma era stata derisa anche solo come ipotesi, prevedendo invece una schiacciante vittoria di Hilary. Sembra l’Italia che si sveglia con la vittoria di Berlusconi
Quanto utilizza e legge i blog letterari o a tema culturale?
Ho scoperto tardi i primi ambienti che raggruppavano i blog culturali come Clarence, ma già ai tempi de Il Riformista, nel 2005, curavo un inserto dei best of de Il Cannocchiale, una piattaforma trasversale su cui c’erano blog di varia natura. Poi ho allargato l’orizzonte a blog come Nazione Indiana, Letteratitudine e Sul Romanzo, poi Finzioni e Quattrocentoquattro… e ho notato questo: mentre all’inizio i blog facevano emergere voci che prima non trovavano spazio nelle pubblicazioni tradizionali, oggi hanno più difficoltà a percorrere questa strada, diventando ottime rassegne stampa. Penso a realtà come minima & moralia che è il dagospia della cultura italiana, raccogliendo e ripubblicando articoli e informazioni interessanti in ambito culturale già usciti altrove. Certo c’è un tasso di litigiosità altissimo fra chi scrive sui blog culturali e ‘gruppettarismo’ da ricreazione scolastica di cui farei volentieri a meno. 


Quali sono le caratteristiche che dovrebbe avere un blog per attirare la sua attenzione? 
Se è nuovo, deve subito farmi capire dal titolo di cosa stiamo parlando. Su Finzioni magazine non andrò mai a cercare come sta cambiando la cronaca politica, ma riflessioni sulle forme di rappresentazione di una storia. Se invece è una realtà che conosco già, mi soffermo sulle modalità usate per comunicare i contenuti sui social. È lì che vado a vedere cosa c’è di nuovo, valutando come i blog sanno adeguare il linguaggio al canale utilizzato. Mi piacciono i blog che lavorano per offrire una personalizzazione autentica sugli argomenti proposti. Non amo i blog ideologici o logorroici, preferendo quelli informativi ed esistenziali. 

So che lei è anche docente all’università IULM. Come ha affrontato questa sfida?
Mi sono sempre posto con curiosità. Rifacendomi al film Jules et Jim di François Truffaut, posso dire che la curiosità è un mestiere sempre attuale, il problema è trovare qualcuno che paghi le tue scappatelle intellettuali. Un altro elemento per me imprescindibile è la cura, anche perché la cura è l’area di sovrapposizione perfetta fra la mia attività quotidiana come giornalista e la necessaria profondità dei temi trattati in ambito culturale. Con i miei studenti di comunicazione e narrazione multimediale analizziamo e studiamo format complessi e innovativi come Snow Fall del New York Times. Poi mi interessa molto il nostro orizzonte percettivo. Per esempio abbiamo fatto leggere delle pagine di Fabio Volo alle persone senza rivelare il nome dell’autore verificando che in pochi erano in grado di identificarne l’origine, mettendo in scena i loro pregiudizi.

Qual è la parte più affascinante del suo lavoro?
La cosa più bella è quando puoi andare a verificare persone e fatti, trovandoti ad osservare l’inatteso. Per La Lettura intervistai Slavoj Žižek a Lubiana e quando arrivai a casa sua scoprii tante cose inattese sull’uomo. Questo filosofo di sinistra, marxista hegeliano, bene-comunista aveva un feticismo di accumulo tutto borghese in casa sua, parlava in italiano e usava la nostra lingua per raccontare barzellette sconce su Mussolini. Ricordo che si è fatto il primo selfie con me, lui che odiava i selfie. Ecco possiamo dire che il motore primo di ogni mia ricerca è il sorprendente. 


Prima di salutarla, mi piacerebbe chiederle cosa sta leggendo.

Meditazioni sullo scorpione di Sergio Solmi edito da Adelphi. L’ho iniziato a leggere in un ristorante cinese di Chinatown con Marco Cubeddu e Alcide Pierantozzi. Con il cibo cinese mi è sembrata la lettura migliore. Per me libri e persone vanno assieme. Il libro è un momento di solitudine e mi piace condividerla con altri. Parlare di libri senza altri scopi, solo per il piacere della condivisione.


Commenti

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