Scrivendo a passo di danza: la nuova avventura di Zadie Smith


C’è stato un periodo nella storia del cinema, fra la metà degli anni ’30 e la fine dei ’40, in cui la trama lasciava il posto alla danza e all’abilità di performers come Fred Astaire e Ginger Rogers, riuscendo a far sospendere al pubblico il giudizio su un finale scontato. Ciò che interessava agli spettatori era godere degli effetti speciali che questi interpreti realizzavano usando il più semplice e a buon mercato degli strumenti: il loro corpo.


E da qui che sembra partire Zadie Smith per il suo quinto romanzo, Swing Time (lo stesso titolo di un film del 1936 con la coppia Astaire/Rogers), pubblicato da poco dalla Penguin in USA e in UK, in cui racconta la storia di due ragazze con una passione in comune: la danza. Entrambe le ragazze (la voce narrante senza nome e la sua compagna Tracey) sono cresciute in quella zona di Londra che l’autrice di Denti Bianchi e NW conosce così bene, facendo della danza la loro forma espressiva d’elezione fin da piccole: a una scuola di danza si sono conosciute e alla danza, in modi molto differenti, hanno dedicato la loro vita.


Attenzione però ad associare Swing Time a un romanzo di formazione o a quello che gli anglosassoni definiscono a “best friend bildungsroman” sul modello della Ferrante, Zadie Smith è una abile e severa mente analitica, applicata al più destrutturato dei campi dell’agire umano: le emozioni. Insofferenti alle catalogazioni e alle prigioni spaziali e temporali, le emozioni che generiamo si nutrono delle nostre esperienze per guidare, spesso nostro malgrado, la vita che percorriamo. Sono i coreografi della nostra danza e non vanno d’accordo fra loro, portandoci a compiere scelte difficili e contrastanti, come quelle della voce narrante, che dovrà confrontarsi con la mancanza di autostima per credere che esista più di una forma di talento o della sua amica/nemica Tracey che di talento sembra averne in eccesso, incapace di incanalarsi nel sistema di regole cui la danza e la vita provano ad ancorarsi per non sentirsi troppo esposte alle emozioni che le hanno generate. Swing Time parla di scelte difficili, di rinunce, di riscoperte, di identità, di creatività e ambizione. È il tentativo di un fine saggista, quale è la Smith, di trasformare uno ‘stream of reflections’ in una storia fatta di azione, dialoghi e dettagli tangibili, come si confà a un romanzo. Una sfida che in pochi avrebbero accettato e il cui esito starà al lettore giudicare, ma davanti al quale non può rimanere indifferenti.



Era da un po’ di tempo che Zadie Smith pensava di ambientare una storia nel mondo della danza. È lei stessa a dircelo in una delle sue tante interviste al Guardian, citando Martha Graham: «c’è una forza vitale, un’energia che si traduce in azione attraverso di te e poiché esiste un solo ed unico te stesso in ogni singolo momento che la vita ci offre, questa azione è anch’essa unica. Sta a ognuno di noi fissarla chiaramente in noi stessi e lasciare questo canale di comunicazione sempre aperto».  Si parla di danza ma potrebbe essere la descrizione dell’attività di uno scrittore che, come un ballerino, è sempre sospeso tra le regole e le costrizioni che gli impongono i suoi strumenti (le parole per lo scrittore e il corpo per il ballerino) e la libertà assoluta che pretende l’atto creativo. Sarà la capacità di portare fuori le emozioni, proprie e altrui, a fare la differenza. È la stessa voce narrante senza nome di Swing Time a ricordarcelo: «Dovevo avere a che fare con le emozioni, tutto ciò che sentivo riuscivo ad esprimerlo molto chiaramente, ero capace di portarlo allo scoperto».



È questo che fa uno scrittore: porta allo scoperto le nostre emozioni affinché sia impossibile ignorarle, a prescindere dall’effetto che potranno avere su di noi e sulle nostre certezze.   


 


 



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