La grande avventura di mettersi in gioco – National Geographic e Shoot4Change.

 
Un bambino con un grosso cappello di paglia in testa si muove a piedi nudi sulla polvere di una strada guatemalteca. Il busto è inclinato e la mano tesa, forse leggermente tremante, in quel misto di eccitazione e paura che i piccoli uomini sono capaci di ritrovare anche nei gesti più comuni.
La paura cresce man mano che si avvicina a un tacchino così gonfio e imponente, da sembrare uno di quelli che gli americani hanno appena riempito di castagne per il loro Thanksgiving. Siamo nel 1936 e lo scatto che stiamo studiando con tanta attenzione fa parte delle 125 fotografie esposte nella mostra in corso al Palazzo delle Esposizioni di Roma dedicata ai 125 anni del National Geographic. 
Per arrivare alle sale espositive dovrete percorrere l’ottocentesco scalone monumentale in marmo bianco che si trova all’interno del Palazzo delle Esposizioni e, salendo le scale basse e larghe, non potrete che alzare gli occhi al muro di fronte a voi su cui campeggia, a lettere rosse, il titolo della mostra: “La Grande Avventura”. Un’avventura appunto quella intrapresa a Washington 125 ani fa da un gruppo di studiosi e mecenati (e qualche arguto mercante) che ha portato a rivedere completamente il modo di fare e soprattutto di osservare una fotografia, cambiando il suo ruolo da compagna silenziosa di un testo scritto a vera illuminazione sensoriale per il suo spettatore, capace non solo di sensibilizzare ma anche di generare una serie di azioni concrete nei suoi osservatori. 
E non pensiamo soltanto agli scatti di artisti come Bresson, Salgado, Harvey, Doisneau, McCurry o Jodice, ma anche a chi, animato dalla voglia di scoprire il “vero habitat” di un essere umano, magari insieme a organizzazioni come Shoot4Change, è partito con pochi preconcetti e molti obiettivi (e cavalletti al seguito) per cercare di capire e mostrare un altro punto di vista. Soprattutto a chi è disposto a guardare, dritto negli occhi, la realtà rappresentata, a chi crede che anche un singolo scatto possa fare la differenza, soprattutto se l’habitat che si scopre è un “non- habit”, ossia un luogo di perenne attesa, in cui uomini, come personaggi di un testo teatrale di Beckett, vengono confinati in un limbo fisico e psicologico (pensiamo al sempre più comune status di rifugiato in paesi dove la guerra è divenuta la regola) dove l’attesa, per una normalità di cui non si ricordano più forme e dimensioni, diventa l’intera vita.  
E se J. M. Coetzee con il suo romanzo Aspettando i barbari (Einaudi – 2005) ci ha fatto capire quanto sia facile passare dal mondo delle certezze, al di qua delle mura economiche e sociali che ci difendono dai barbari, a quello della fuga continua e dell’attesa beckettiana, spetta forse a Zygmunt Bauman ricordarci quanto sia pericolosa la spinta innata dell’essere umano a non voler conoscere ciò che ha intorno.

Proviamo allora a rompere qualche muro, alla ricerca di sensazioni “inquiete”, magari con il progetto di Annamaria Bruni su Shoot4Change


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