La tempesta di Merrill Block
L’attesa per un evento che in
pochi attimi cambierà le vite di molte persone, questo è o sembra essere
l’incipit vincente e diffuso del nuovo romanzo di Stefan Merrill Block, l’attesa per qualcosa di
terribile e inappellabile che dovrebbe colpire tutto e tutti per ridare un
senso al corso degli eventi. L’attesa per un deus ex machina che non
giungerà mai e che lascerà agli uomini la ricerca della soluzione meno
sgradevole per le proprie anime. Perché La tempesta alla porta (Neri Pozza, 2011) non è
soltanto la storia di alcuni “prigionieri”
che vagano negli ampi giardini della Mayflower, ospedale psichiatrico
bostoniano degli anni sessanta, né tanto meno una semplice storia familiare,
iniziata da un nipote che cerca di ricostruire per tutta la durata del romanzo la
vera storia dei suoi nonni e con essa allontanare la paura (o il piacere) di
essere un loro condensato. Questo romanzo, abilmente disegnato da Merrill Block
intorno alla curiosità iniziale, ai ritmi serrati delle sue prime pagine, alla
sua insistenza, spesso fastidiosa, nel ricordare continuamente al lettore che l’attesa sta per
finire, confonde e inganna il lettore, facendogli credere di trovarsi davanti
ad uno dei tanti romanzi che promettono stupore a buon mercato e affascinanti colpevoli
da ricordare. Il lettore potrà reagire male, quando la tempesta (quella fisica)
sarà passata e tutto sarà rimasto uguale. Ma sarà allora che potrà entrare nel
ventre del romanzo, nella sua vera tempesta, quella mentale, in un profondo e
prolungato ricorso all’under mind di Woolfiana memoria, in cui i
dialoghi diretti diventano cornice ai dialoghi che i personaggi hanno con se
stessi. Per scoprire che il mondo non è altro che è “una fantasia collettiva
a cui tutti aderiscono nel tentativo di nascondere i propri tormenti”.
Da quel momento sarete prigionieri della tempesta, dovrete confrontarvi con la
tempesta, con le sue deformi necessità.
Sarete preda di vortici di
sensazioni diffuse che trascendono dalle parole che leggerete e si faranno
strada fra le vostre paure, aizzandole e scompigliandole.
Sarete sul punto di dire che
avete per le mani un vero romanzo, ma a quel punto sarete arrivati circa
a metà del libro e qualcosa inizierà a scricchiolare. Permarrà la rara capacità
di contaminare la prosa con la poesia, di far dialogare i personaggi più sul
non detto che sul parlato, quella furba strutturazione del romanzo in blocchi
serrati in cui l’incipit detiene il senso del capitolo intero. Ma qualcosa
della complessa tessitura di preziose parole Merrill Block avrà iniziato a
perderlo. Probabilmente la consapevolezza del ruolo prioritario esercitato, nella
prima parte del romanzo, dai suoi personaggi, ruolo che inizierà fatalmente ad
indebolirsi con il susseguirsi delle pagine a favore della necessità dell’autore
di entrare così tanto nelle loro menti da livellarle nella sua. Il lettore si troverà di fronte alla sensazione di essere passato in un giardino di delizie, il cui
sapore però non gli avrà garantito la gioia promessa dai loro intensi colori.
Resterete quindi entusiasti e al contempo delusi da questo romanzo che aveva in
sé una promessa forse troppo grande, troppo importante, troppo necessaria alla
vostra anima per accettare che fosse pienamente soddisfatta. Sicuramente il
lettore ricorderà la sublime corte di personaggi che Stefan Merrill Block ci ha
regalato, accomunati dalla paura per l’autoanalisi e dal bisogno continuo di
metterla in pratica, come se il cervello non potesse fare a meno di scuotersi, di soffrire, di
spalancarsi al voyeurismo del lettore, che tirerà un sospiro di sollievo per non
essere (ancora?) al loro posto.
A me è sembrato un libro splendido. Non condivido il tuo punto di vista, a me sembra che Merrill Block abbia colto a pieno la complessità e lo splendore della follia umana.
RispondiEliminaSul voyeurismo del lettore di cui parli, penso tu abbia ragione, ma non è nell'indole stessa del buon lettore?
Laura