Tanta, tanta, ma tanta RABBIA!

Più volte ci siamo trovati a parlare dei nostri dubbi su imago2.0 e più volte siamo arrivati alla conclusione che il vero barbaro, in un mondo di granitici difensori di certezze impalpabili, sia colui che dei dubbi pensa di fare a meno.

Certo, a nessuno fa piacere palesare i propri dubbi davanti ad estranei, è come mostrarsi in costume da bagno ancora bianchicci e con qualche chilo di troppo, non fa bene alla nostra autostima e ci rende facile preda del sarcasmo di chi, i chili di troppo, se li arrotola intorno alla lingua, pronti ad azzannare le imperfezioni altrui, come se la possibilità di ferire un altro essere umano fosse il balsamo migliore alle proprie insicurezze. Spostare l’attenzione su se stessi, colpendo gli altri e dimostrando così la propria inconsistenza. Questo il pensiero che ho distillato due anni fa, quando mi sono trovato impreparato spettatore davanti al “Dio della Carneficina” di Yasmina Reza (commediografa francese di fama internazionale) riadattato in Italia dall’implacabile mano del regista Roberto Andò e concretizzatasi nelle incontenibili fisionomie di Silvio Orlando e Anna Bonaiuto (http://www.adelphi.it/evento/64).
Impreparato perché scoprire che il protagonista dello spettacolo teatrale che si sta guardando non è altro che una fotografia senza veli di se stessi non è piacevole. La storia ideata dalla Reza praticamente non esiste o meglio è tutta nelle teste dei personaggi, due coppie borghesi che si incontrano per risolvere un litigio a suon di scazzottata fra i loro figli. Con le migliori intenzioni (almeno apparenti) le due coppie si incontreranno, cercando di dimostrare ai loro figli (che non sono però coinvolti) che la violenza è qualcosa di barbaro ed irrazionale a cui non si deve far ricorso.., a meno che, ovviamente, l’altro dimostri che è strettamente necessario. Ed è questo che la Reza insiste a volerci mostrare: gli uomini sono solo un groviglio di istinti e pulsioni violente che possono (vogliono) controllare fino ad un certo punto.

Da questa stessa piece Roman Polanski ha tratto un film (Carnage) claustrofobico e ricco di suggestioni, preciso e pericoloso per uno spettatore che inevitabilmente si ritroverà in uno dei personaggi e che sentirà un languore crescente con lo srotolarsi della pellicola a cui non saprà dare un nome. In Carnage, Polanski dosa tutti gli ingredienti di una carneficina: ansia, paura, determinazione, condivisione momentanea, complicità tradita, ironia, sarcasmo e soprattutto tanta, ma tanta rabbia, repressa e compressa, per essere intrappolati in una vita che non si sopporta e per la quale si vorrebbe davvero poter dare la colpa a qualcuno.

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